Battaglie In Sintesi
1097 - 1098
Figlio cadetto di Eustachio II conte di Boulogne e di Ida figlia di Goffredo II, duca della Bassa Lorena; iniziato alla vita ecclesiastica, si volse poi alle armi e seguì nel 1096 il fratello maggiore Goffredo di Buglione nella prima crociata. Ad essa partecipò attivamente: in Ungheria fu ostaggio di quel re; a Costantinopoli contrastò le pretese egemoniche dell'imperatore; all'assedio di Nicea e alla battaglia di Dorileo fu combattente valoroso. Anelando a imprese audaci e a conquiste, lasciò nel 1097 l'esercito crociato e col normanno Tancredi occupò Tarso e altre città. Poi, contese con Tancredi; e con duecento cavalieri si recò a Edessa per invito di quel principe armeno Thoros, tributario dei Turchi. Adottato come figlio, successe già nel marzo del 1098 a Thoros, caduto vittima di una congiura, e assunse il titolo di conte di Edessa. Arditamente combatté contro i Turchi di Siwas e di Aleppo e occupò Samosata e molte altre città del bacino superiore dell'Eufrate. Gli Armmi lo appoggiarono e Baldovino rimasto vedovo di Godehild di Toeni, che l'aveva seguito dalle Fiandre, sposò Arda, parente di Rupen I, principe della Piccola Armenia. Giuntagli la notizia della presa di Gerusalemme, vi si recò con audace viaggio, attraverso paesi ancora musulmani, per sciogliere il voto (1099). Designato a successore dal fratello Goffredo, fu riconosciuto re da tutti i signori latini. Cedé allora al cugino Baldovino di Bourcq la contea di Edessa. Proclamato re in Gerusalemme l'11 novembre 1100, si fece incoronare a Betlemme nel Natale. Riunì a parlamento i feudatari e mise mano a riordinare i feudi, iniziando la redazione delle Assisi di Gerusalemme. Poiché il patriarca Daiberto insisteva nella sua ostilità all'organizzazione monarchica dello stato, desiderando fare di Gerusalemme una sua signoria teocratica, Baldovino lo fece sospendere e deporre (marzo 1101). Per sistemare la conquista in uno stabile organismo, iniziò dopo il 1101 l'occupazione della zona marittima, con l'appoggio della flotta genovese, occupando le città di Arsuf (9 maggio 1101) e Cesarea (31 maggio).
Dall'Egitto si svolse allora un'energica offensiva musulmana: Baldovino vinse gli Egiziani ad Ascalona (7 settembre 1101), ma, inferiore per numero, fu vinto ad ar-Ramlah: si salvò ad Arsuf e per mare burrascoso a Giaffa, dove raccolse forze e ricacciò i nemici con l'aiuto di una flotta di pellegrini inglesi allora giunti. La figura gigantesca, il valore, l'ostentata celebrazione delle solennità resero il re presto popolare e temuto in tutto l'Oriente islamico. A Giaffa (27 agosto 1105), ad Ascalona (ottobre 1106), ad ar-Ramlah (1107) inflisse nuove sconfitte agli Egiziani, mentre a Tiberiade batteva i Turchi di Damasco (1107). Per assicurare le comunicazioni di Gerusalemme con i principati latini della Siria settentrionale, attaccò Acri nel 1103 e l'ebbe per capitolazione nel maggio 1104, mentre Tiro (maggio 1108) e Sidone (agosto 1108) furono salvate dalla comparsa di flotte egiziane o da scorrerie dei Turchi di Damasco. Fra una spedizione e l'altra, Baldovino attendeva ad organizzare il regno, assistito dal cancelliere Arnolfo. Interviene ripetutamente nelle lotte degli stati latini del nord. Quando, nel 1109, giunse in Siria Bertrando di Tolosa, il re accorse in suo aiuto per occupare Tripoli (1° aprile 1109); pacificò poi Bertrando col conte Guglielmo Giordano e con Tancredi d'Antiochia, e questo con Baldovino d'Edessa; in soccorso del quale, gravemente minacciato dai Turchi di Aleppo, accorse nella regione dell'Eufrate nel 1110. Molto coltivò il re l'amicizia delle repubbliche marinare italiane, concedendo loro quartieri e privilegi commerciali nelle città marittime alla cui conquista avevano partecipato: Berito (Beirut) e Sidone. Tiro ed Ascalona resistettero invece energicamente a tutti gli attacchi cristiani. Dal 1112 al 1113, si svolse una nuova duplice offensiva musulmana, da Damasco e dall'Egitto. Ma essa fallì, per la mancanza di unità di azione più che per le forze cristiane. Baldovino che aveva ripudiato nel 1113 Arda, per sposare Adelaide di Monferrato, vedova di Ruggero duca di Sicilia, ripudiò poi anche Adelaide, nel 1117, quando, temendo di morire, si pentì di quel matrimonio illegale. Sebbene stanco ed esausto, B. diresse una spedizione a sud verso l'Egitto: ammalatosi, volle ritornare a Gerusalemme per morirvi, ma giunto in lettiga a el-Arish, vi morì il 2 aprile. La sua salma venne deposta a Gerusalemme nel Santo Sepolcro, presso quella di Goffredo di Buglione.
Principe normanno (m. Antiochia 1112), figlio di Eude e di Emma (figlia o sorella di Roberto il Guiscardo). Tra i più valorosi capi della prima crociata, si segnalò soprattutto nella conquista di Antiochia e di Gerusalemme; presa Tiberiade (1099), di cui fu creato signore da Goffredo di Buglione, fu nominato principe di Galilea. In assenza di Boemondo I, assunse (1104) la reggenza del principato di Antiochia e, per la prigionia di Baldovino II, di quello di Edessa. Quando Baldovino fu liberato, Tancredi, costretto con la guerra dagli altri principi cristiani, tornò a cedergli la contea. Morto Boemondo, Tancredi continuò a esercitare la reggenza ad Antiochia; morì, sembra, avvelenato dal patriarca latino di Antiochia.
Il terzo dì del luglio i Crociati ripresero il loro cammino avendo prima disposto che più non si partisse l'esercito ma procedesse unito in un sol corpo; la qual deliberazione comecchè fosse opportuna e prudente contro gli assalii de' nemici, esponeva però il troppo grande numero dei pellegrini a perire di fame per il paese già corso e spogliato dai Turchi. Escito l'esercito adunque dalla valle di Gorgoni, entrò in quella di Dorilea che presentemente dicesi Eschi Scer cioè vecchia città. Tutte le campagne erano diserte, e dopo fatto poco cammino, il soldato non aveva più altro alimento che radici di piante salvatiche e poche spighe sfuggite alla nimica depredazione. Per difetto d'acqua e di strami perirono moltissimi cavalli, d'onde i cavalieri che solevano aver a vile i fanti, vidersi costretti di camminare a piedi e portarsi sulle spalle le loro armature il cui peso gli stremava di forze. Stranissimo aspetto presentava allora di se' il cristiano esercito; vedevansi cavalieri sopra asini e bovi guidare i loro soldati; e arieti, capre, porci, cani, e quantunque altri animali potevansi avere, carichi delle bagaglie, che poi rimanersi quasi tutte abbandonate per le strade. Traversavano allora i Crociati quella parte della Frigia che gli antichi dissero Adusta, lasciatasi a destra la vetusta città di Cotileo, oggi Cutaiè appellata, e l'antica Esanos ovvero Azania della quale i moderni viaggiatori hanno le interessanti ruine diligentemente descritte. Passarono di poi per l'antico paese d'Isauria, ai Latini Isauria Trachea, prima di giungere ad Antiochetta metropoli di Pisidia. I Cronisti abbondano di particolari intorno alle pene e agli stenti sofferti dai Crociati nel loro tragitto da Dorilea ad Antiochetta. Gli afflisse estrema sete per modo che i più robusti soldati se ne accasciavano; e Guglielmo Tirense narra che ne perissero cinquecento in un sul giorno. Alberto Aqueuse fa memoria di donne che partorirono avanti al tempo da natura prescritto, forse per l'arsura dell'adusta regione; d'altre ancora che cadevano in disperazione allato de' loro bambinelli che non potevano più allattare le prosciugate mammelle e chiamavano morte con acute grida, nell'eccesso di loro angoscie rotolandosi ìgnude per terra davanti all'esercito. Nè i cronisti obbliano di far menzione dei falchi e simili uccelli da caccia che quasi tutti i cavalieri avevano recati seco in Asia e ai quali tutti fu mortifero l'infocato clima. Invano fu chiesto a Dio con fervorosissime preghiere che rinnovasse il miracolo della Manna e dell'acque, per lui in favore del suo popolo prediletto nel diserto operato; le sterili pianure della Frigia risonarono invano per più giorni, di preghiere, di lamenti, e (se i cronisti dicono il vero) anco di bestemmie; ma nè per queste s'accese lo sdegno, nè per quelle si commosse la misericordia di Dio. In mezzo a quella inospitale regione trovarono i Crociati finalmente un refrigerio onde scampare dall'estremo eccidio. I cani dell'esercito (poichè la disperazione proscioglie ogni socievole legame di affezione anco per gli stessi bruti ) abbandonati i loro padroni, correvano errando per le pianure e per le montagne in traccia di qualche fonte o rigagno ove abbeverarsi. Un giorno, essendone ritornati alcuni al campo col pelo lordo di polvere umidiccia, come addivenir suole quando il cane si rivoltola sulla terra bagnata, fu fatto giudizio che avessero trovata dell'acqua, perlocchè alcuni soldati avendoli seguitati, scopersero una riviera. Accorse subito colà tutto l'esercito, girandosi ognuno nell'acqua senza riguardo alcuno, tanta era l'arsione che lo divorava; dondechè da circa trecento ne morirono improvvisamente, e altri molti caddero in gravi malattie non potendo dipoi seguitare più i compagni. Il nome della detta riviera non è riferito da veruno antico scrittore, nè con la moderna geografia si potrebbe sicuramente propriare qual fosse. Alberto Aquense descrivendo il cammino tenuto per l'esercito cristiano, parla di certe montagne che "Nere" erano denominate. La distanza di Dorilea da Antiochetta è di circa quaranta leghe da settentrione a meriggio; i crociati non annoverano le giornate impiegate dai pellegrini iu questo tragitto, ma certo, per le difficoltà e per i sofferti patimenti, non fu in breve tempo, espedito.
Finalmente l'esercito pervenne ad Antiochetta che gli aperse le porte. Era questa città nel mezzo di territorio per prati, ruscelli e boschetti amenissimo, per la qual cosa i Crociati deliberaronsi di prendervi alcun giorno di ristoro, il che fece loro dimenticare i sofferti mali. Il paese d'Ach Scer ( così appellano i Turchi l'antica Antiochetta ) è ancora ai di nostri boscoso com'era a tempo le Crociate. La fama della venuta e delle vittorie de' Crociati erasi per tutti i circostanti paesi divolgata, dai quali spedivansi deputati all'esercito col giuramento della obbedienza e con l'offerta di soccorsi, d'onde, senza combattere, vennero in potere de' Latini alcune contrade delle quali ignoravano il nome e il sito, non meno che avervi anticamente conseguita vittoria gli eserciti d'Alessandro e di Roma, e che i Greci abitatori di esse provincie discendevano dai Galli, i quali nell'età del secondo Brenno, partitisi dall'Illiria e dalle rive del Danubio, e traversato il Bosforo avevano dato il sacco alla città di Eraclea e fondata una colonia sulle rive dell'Ali. I nuovi conquistatori, per nulla curanti di siffatte erudizioni, ponevano tutta la loro intesa nel combattere e debellare i nemici di Cristo, favorendo ai progressi delle loro armi i popoli dell'Asia Minore, quasi tutti cristiani, e la maggior parte delle città, che per il solo avvicinarsi di loro possanza, liberate dal giogo mussulmano, salutavanli quali loro liberatori. Durante il detto soggiorno ad Antiochetta, l'allegrezza del nuovo conquisto rimasesi alcun giorno interrotta, per il timore di perdere due dei principali capi dell'esercito. Uno fu Raimondo conte di Tolosa soprappeso da fierissima malattia, sicchè disperandosi ormai della sua salute, secondo la consuetudine d'allora, l'avevano disteso sulla cenere, facendoli il vescovo d'Orangia le preci de' moribondi; allorchè presentossi un conte sassone annunciando che Raimondo non sarebbe morto di quel malore, e che le orazioni di san Gille avevano in di lui pro ottenuta una triegua con la morte. Le quali profetiche parole ( dice Guglielmo da Tiro ) rinverdirono la speranza di tutti gli assistenti; e non molto dipoi Raimondo rappresentassi sano e salvo all'esercito, che gridò la sua guarnigione essere miracolosa. Nel tempo medesimo, essendosi smarrito Goffredo in una selva, trovovvi assalito e quasi sopraffatto da un orso ferocissimo un soldato, quale, volendo difendere, fu a gran pericolo di essere dalla fiera divorato; nè prima la vinse, che feritegli con un morso profondamente la coscia, da quella versando gran copia di sangue, fu quasi esanime al campo trasportato. Se in luogo di tale infortunio avessero i Crociati perduta una battaglia, pè sarebbero stati molto meno sgomenti; tutti piangevano di dolore e di temenza, tutti per la conservazione di Goffredo a Dio fervorosamente si raccomandavano. Esplorarono i medici diligentemente la ferita, nè la giudicarono mortale, avendo il maggior male cagionato la perdita del molto sangue, per la quale il duca di Buglione penò lungo tempo a ricuperare le smarrite forze. Anche la convalescenza del conte di Tolosa fu lenta; ed ambidue per parecchie settimane furono costretti farsi portare in lettiga dietro all'esercito.
Maggiori guai però soprastavano al cristiano esèrcito, perchè sendosi fino allora mantenuta in quello la pace e la concordia, per la sua unione era potentissimo; ma nata imprevistamente discordia fra alcuni capi, poco mancò che col dilatarsi non sovvertisse ogni ordine. Furono mandati a procacciar vettovaglie e soccorsi e per proteggere i cristiani del paese e riconoscere i luoghi, Baldovino, fratello di Goffredo, con un corpo di Fiamminghi, e Tancredi con un corpo d'Italiani. Costoro innoltraronsi fino alla città d'Iconio, ma trovando il paese abbandonato e niun nimico, passando le montagne del Tauro, avviaronsi verso le rive del mare. Tancredi che camminava primo, giunse senza ostacolo sotto le mura di Tarso, patria di san Paolo e detta modernamente Tartus, situata in una pianura sulle rive del Cidno, le cui limpidissime acque costarono la vita a Federigo Barbarossa, e distante tre ore di cammino dal mare. Egli era probabilmente sortito dal Tauro per il valico appellato Gealec Bogaz, distante da Tarso sedici ore, e che Alberto Aquense chiama Porta di Giuda, e la valle che mette a esso valico Butrenta. Il presidio turco della città , conoscendo forse di non potersi difendere o per altra ignota cagione, s'accordò di alzare sulle mura il vessillo cristiano e d'arrendersi se dentro pochi giorni non fosse soccorso. Tancredi standosene a queste promesse, pose il suo campo presso alle porte della città; giunse frattanto Baldovino, il quale essendosi con le sue genti smarrito per le montagne del Tauro, dopo tre giorni d'incerto e penoso viaggio, era pervenuto sul cacume d'un monte dal quale potè riconoscere il campo di Tancredi sotto le mura di Tarso. Credo che la detta montagna fosse la diramazione del Tauro che da levante procede a ponente e che è al settentrione di Tarso pochissimo distante. Riconosciutisi, i due corpi de' Crociati rallegraronsi della insperata congiunzione e tanto fu più grande la loro contentezza in quanto che da lungi a prima vista s'erano creduti scambievolmente nemici. I Fiamminghi, accampatisi allato a Tancredi, e preso frugal ristoro di cibo, passarono la notte pacificamente, ma sorto il giorno e vedutasi la bandiera di Tancredi inalberata sulla torre della città, ciò commosse Baldovino e i suoi compagni a invidia; il quale comincio' a protestare che per essere il suo corpo più numeroso, la città doveva arrendersi a lui, lagnavasi dipoi amaramente che si offendesse a' suoi diritti, ed infuriatosi vomitava plebee ingiurie contro Tancredi, contro Boemondo e contro tutta la stirpe de' venturieri normanni. S'inasprì la contesa e sarebbero venuti all'armi, se non prendevasi lo spediente d'inviare deputati ai cittadini, che decidessero essi medesimi a quale dei due principi Cristiani volevano sottoporsi. I cittadini preferirono Tancredi: ma Baldovino tanto si adoperò presso i Turchi e gli Armeni, minacciando loro le sue vendette e quelle di Goffredo e promettendo la sua protezione e quella de'principi Cristiani se si davano a lui, che parte spaventati dalle minacce e parte dalle larghe promissioni allettate, piegarono alle di lui voglie e inalberarono la sua bandiera sulla torre, toltane prima quella di Tancredi e gittatala obbrobriosamente fuori delle mura. I Crociati Italiani e Normanni non sapendo sofferire tanta ingiuria, accingevansi all'armi, ma Tancredi s'adoperò con tale zelo per acquetarli, che alla fine gli riesci' di ricondurli a moderazione e disporli a partirsi dalla ingiustamente usurpata città, per muovere in cerca d'altri conquisti.
Frattanto Baldovino usando ogni artificio di protestazioni e anco di preghiere, consegui' che gli fossero aperte le porte della città, ove i Turchi erano tuttavia padroni della fortezza e di alquante torri. Fattosi in tal modo padrone di Tarso e avendo continue sospicioni di rivali, ricusò per fino di dar ricetto a trecento Crociati. spediti da Boemondo, i quali chiedevano alloggio solttanlo per la notte. Gli stessi Fiamminghi supplicavano invano il principe che avesse pietà ai loro fratelli oppressi dalla stanchezza e dalla fame; e non v'essendo argomento da farlo più umano, i soldati di Boemondo furono obbligati di porre le tende nella campagna, dove furono sorpresi e trucidati nottetempo (nè senza mala fama dell'ambizioso Baldovino) da quelli stessi Turchi di Tarso, che v'avevano ricevuto i Cristiani e che, non potendo più tenerla fortezza, o per propria elezione o per altrui consiglio, avevano eletto quell'ora alla loro partenza. Al nuovo giorno si divulga per la città la novella del miserando caso. Escono i Crociati e vanno a riconoscere i loro fratelli giacenti esanimi per la campagna e spogliati delle armi e delle vesti; il piano e la città echeggiano dei loro lamenti; i più feroci corrono alle armi e minacciano sterminio ai pochi Turchi rimasi nella fortezza. Frattanto propagasi il sospetto che non senza partecipazione di Baldovino sia quella sciagura intervenuta; perlocchè gli ammutinati corrono a lui accusandolo della morte de' compagni, e saettandolo con le freccie si studiano d'ucciderlo. Egli smarrito dassi alla fuga e finalmente si chiude dentro una torre, molto dubbioso della sua sorte e macchinando alcuno spediente per la propria salvezza. Acquetato alquanto il tumulto e avendo egli immaginato il modo del suo scampo, si rappresenta di nuovo ai soldati, piangendo la sciagura degli uccisi compagni e colora la sua malignità allegando i trattati fermati con i cittadini, ai quali non avea potuto contravvenire; ma conoscendo che questa scusa non era sufficiente ad appagare gli animi già inferociti e cupidi di vendetta, s'ingegna di volgere le loro ire contro i Turchi accennando la fortezza che ancora tenevano. Nel qual momento operò ancora con mirabile avvedutezza, che venissero in cospetto de' Crociati le donne Cristiane alle quali i Mussulmani avevano tagliate le orecchie e il naso. A tal vista gli ammutinati dimenticano lo sdegno contro il loro capo, e gridano furibondi lo sterminio ai Turchi. Scalano le torri ove stavano ancora piantati gli stendardi degli infedeli: niun contrasto è potente incontro al loro impeto e tutti i Turchi sono immanemente trucidati. Così Baldovino con la sua astuzia liberò sè dalla mala ventura e conseguì il suo fine d'impadronirsi totalmente della città.
Vendicata che ebbero i Crociati, secondo la loro stima, la' morte dei compagni, occuparonsi a seppellirli, e mentre facevano le esequie, sopraggiunse inaspettatamente un buon rinforzo. Apparve in mare un'armata che avvicinavasi a vele gonfie, la quale immaginando i soldati esser d'infedeli, corsero al lido. Appropinquatosi il naviglio a distanza da potersi intender la voce, interrogano quei della prima nave, donde vengano e chi siano; quelli rispondono in francese, onde i Crociati cominciando a sospicar di tradimento, chiedono nuovamente gli stranieri come e' si trovino nel mare di Tarso e a qual nazione appartengano. Rispondono quelli, essere Cristiani e venire dalla Fiandra, dalla Svizzera e dalle provirtcie di Francia; dipoi anch'essi richieggono i pellegrini dell'esser loro, e per qual ragione sieno venuti così lontano dalle patrie loro: "chi v'ha tratto in sì remoto esigilo e fra tante barbare genti ?" Rispondono i Crociati: "Noi siamo campioni di Gesù Cristo, e andiamo a Gerusalemme per liberare il suo Santo Sepolcro". Raccolto ciò i forestieri discendono confidentemente a terra e s'accostano ai Crociati, stringonsi le destre e riconosconsi fratelli. Questi naviganti erano corsari che correvano il Mediterraneo già da otto anni; esortati dai Crociati, entrarono nel porto di Tarso, ove il loro capo Guinemero che era da Bulogna, riconobbe Baldovino e il di lui fratello Eustachio, figliuoli del suo antico signore, onde lietamente si proferisce co' suoi a' loro servigi. Accettata la profferta, tutti i corsari crociaronsi e presero il sagramento di partecipare alla gloria e alle fatiche della santa guerra. Con questo nuovo rinforzo, e posto presidio in Tarso, Baldovino riprese l'interrotto viaggiò per la medesima strada che faceva Tancredi; il quale andato verso Adana distante otto ore al levante di Tarso, e trovatala occupata da un cavaliere Borgognone appellato Guelfo, era proceduto oltre verso Malmiatra della quale s'impossessò, cacciatine i Turchi. Malmistra, che è l'antica Mopsuestia e che modernamente dicesi Messisse',distava sei ore a scirocco di Adana, e tre ore dal mare, sulla riva del Piramo detto ora Dgihan. Tancredi e i suoi fedeli guerrieri non avevano ancora dimenticato gli oltraggi di Baldovino e fitta tenevano in cuore la strage de' loro fratelli abbandonati o forse artatamente esposti al proditorio furore de' Turchi; quando appunto giunse l'avviso che l'istesso Baldovino avea posto il campo in un prato vicino alla predetta città di Malmistra. Subito, i mal repressi sdegni rincrudiscono, tutti prorompono in feroci minaccie, persuasi che il prepotente Francese venga di nuovo a fare insulto alle loro armi e a contendere per il possesso di Malmistra. I cavalieri che erano con Tancredi non omisero di ricordarli le ricevute offese, dimostrandoli che l'onor della cavalleria, la sua gloria e quella de' compagni richiedevano strepitosa vendetta. La puntura della gloria oltraggiata, concitò fieramente lo sdegno di Tancredi, il quale regimate ed ordinate in battaglia le sue genti, muove contro il campo di Baldovino. S'appicca ferocissima zuffa in tra i soldati cristiani, nella quale non valgono a frenare gli animi accecati nell'ira de' combattenti, nè la vista della Croce che portano sulle loro vesti, nè la ricordanza de' mali che hanno sofferto insieme. Dopo non lunga, sebbene fierissima pugna, la gente di Tancredi, inferiore di numero, è costretta a cedere il campo, e ripararsi disordinatamente nella città, rimanendo alcuni prigioni nelle mani de' vincitori e depurando tacitamente la propria sconfitta. Sopravenne la notte che con la sua placidezza ricondusse ai concitati spiriti la calma, i soldati di Tancredi conoscevano non poter superare l'eccedente numero de' Fiamminghi, e oltre ciò, sendosi versato il sangue, estimavano bastevolmente satisfatti. I soldati di Baldovino sentivano alcun rimorso dello avere combattuti e vinti i loro fratelli in Cristo. Il nuovo giorno la voce della umanità e della religione preponderò nei cuori delle due parti, Tancredi e Baldovino inviaronsi nel medesimo tempo deputati i quali, per non far sembiante di chieder pace, attribuirono unanimemente il loro procedere a inspirazione del cielo, siccome è consuetudine degli uomini, incolpar sempre Iddio delle loro follie. Venuti dipoi in presenza uno dell'altro, giuravano di porre in obblivione la loro contesa ed abbracciaronsi davanti ai soldati, i quali pentironsi de' loro trascorsi, accendendosi del desiderio di espiare il sangue de' loro fratelli mediante nuova impresa contro i Turchi.
In brevissimo tempo Tancredi erasi impossessato di tutta la Cilicia. Alberto Aquense annovera fra i luoghi occupati il castello de Pastori; il castello de' Fanciulli ovvero di Bacheler, situati nelle montagne d'Amano, il castello delle Fanciulle, che forse è l'Arenco appellato dagli Arabi Chirliz Chalessi. La fortezza di Arenco estruda sopra una prominenza, era situata due ore a levante del Ponte di ferro sopra l'Oronte. Tancredi s'impadronì anco d'Alessandretta, chiamata dagli Arabi Iscanderun, che è in riva al mare, e trucidò tutti i Turchi che v'erano dentro. L'eroe Italiano non aveva con sè che soli trecento cavalieri, con i quali sottomise quasi a volo tutta la Cilicia; il che non si dee tanto al valore del capitano e de' soldati attribuire, quanto al terrore che dopo la vittoria di Dorilea incutevano le armi latine, e all'avvicinarsi del grande esercito. Il quale da Antiochetta continuando il suo viaggio era pervenuto ad Iconio, ora detto Choniac. I cronisti fanno menzione d'una strada regia seguitata dai Crociati, e veramente nel paese di Choniac esiste ancora un'antica strada molto larga e comoda. I vecchi scrittori sono parchi di particolari intorno alla metropoli della Licaonia, la quale, secondo alcuni di loro era diserta, e l'esercito non vi trovò alcuna cosa da rinfrescarvisi e soprassedervi; secondo altri, i soldati vi furono ricolmi di tutti i beni della terra mediante l'ispirazione del Signore. Partendo da Iconio i Crociati, per consiglio de' paesani portarono seco otri e vasi pieni d'acqua, avendo da fare una giornata di cammino per regione totalmente priva di fonti e di ruscelli. Il giorno dipoi a sera giunse l'esercito a un fiume e vi si fermò per due giorni. Frattanto gli esploratori che correvano innanzi a scoprire il paese, erano pervenuti alla città di Eredi, distante circa trent'ore da Choniac, per gli cronisti della prima Crociata, detta Eraclea; da dove il presidio turco appena vedute le insegne latine, fuggì subito precipitosamente, perloché Roberto Monaco gli rassomiglia ai daini fuggiti dai lacci e alla camozza ferita il fianco di strale. L'esercito soprastette quattro giorni a Erecli. Dopo alcuni altri giorni di cammino per il monte Tauro, l'esercito giunse a Cosar ovvero Coesori, che è l'antica Cucusus ove fu in esiglio san Giovanni Crisostomo. I Crociati avendo trovato a Cosor abbondanza di viveri, soggiornaronvi per tre giorni; dovevano però superare grandi difficoltà per giungere a Maresìa otto o dieci ore distante di verso libeccio, cioè la parte più discoscesa e impraticabile del Tauro. I cronisti raccontano distesamente i disagi sofferti dall'esercito in quelle montagne ove non era alcuna via, infestate tutte da belve feroci e da rettili, ove niun varco era che desse luogo a più che un sol piede e ove le rocce, i cespugli e gli sterpi impedivano ad ogni poco ai pellegrini l'andare avanti. Portavano i cavalieri le loro armi appese al collo, e alcuni vinti da stanchezza gittavanle nei precipizi; i cavalli non potevano reggersi in piedi col carico era loro imposto, perlochè gli uomini vidersi forzati di far le veci di quelli. Niuno poteva fermarsi o assidersi (dice il monaco Roberto), niuno poteva dar aiuto al suo compagno; soltanto quegli che camminava dietro, poteva soccorrere a quello che gli era innanzi, ma questi poteva con difficoltà rivolgersi a quello che lo seguitava. I Cronisti hanno dato a questo luogo il nome di Montagna del Diavolo qual nome sogliono anco applicare ad altre montagne discoscese.
Finalmente pervenuti alla città di Maresìa, tante fatiche ed incredibili disagi ebbero fine; l'aspetto della Siria ravvivò l'abbattuto coraggio dell'esercito. Maresìa, che è l'antica Germanicia, era abitata da Cristiani; e i Turchi che tenevano la cittadella, avvicinandosi i Crociati, eransene fuggiti; e perchè il paese abbondava di viveri e di pasture, posero il campo intorno alla città. La moglie di Baldovino morì in questa città e vi fu seppellita, e il suo marito vi giunse appunto nelle ultime ore della di lei vita. Aveva egli saputo il pericolo del suo fratello Goffredo nei dintorni d'Antiochetta della Pisidia, ed era corso ad accertarsi da per sè stesso della di lui guarigione. Erano nondimeno i di lui portamenti sotto le mura di Tarso biasimati da tutti i capi e da tutti i cavalieri, sicchè invece di ricevere congratulazioni per il suo ritorno, non intese che rimproveri e mormorazioni contro di sè. Goffredo fedel servo di Dio come dice Guglielmo Tirense, lo rimproverò acremente, e Baldovino, secondochè il medesimo istorico afferma, con tutta umiltà si rese in colpa del suo errore; ma, o perchè il biasimo universale gli opprimesse troppo lo spirito, e intiepidisse la sua amicizia con gli altri capi, o perché della liberazione del santo Sepolcro non si curasse gran fatto, o perché la sua ambizione gli suggerisse per l'Oriente, ove con le vittorie guadagnavaiisi agevolmente gli imperi, altri conquisti maggiori che quello di Gerusalemme, egli spergiurò a' suoi sacramenti e al debito di cavaliere della Croce. Le rivoluzioni che adducono le mutazioni degli stati, seguitavano i progressi del vittorioso esercito cristiano, molti venturieri da ogni parte accorrevano a partecipare dei successi della guerra. Un certo Simeone ottenne l'Armenia Minore; Piero delle Alpi semplice cavaliere, ebbe una ricca città della Cilicia: ed altre contrade ad altri pellegrini, non nominati nelle istorie, furono distribuite, col solo obbligo di difenderle dai Turchi. Fra coloro che la speranza dello arricchirsi aveva condotti nel cristiano esercito, merita menzione un principe armeno', appellato Pancrazio, il quale nella sua giovinezza aveva regnato nella Iberia settentrionale, ma scacciato dal suo piccolo regno dai propri sudditi, erasene andato a Costantinopoli ove per il suo continuo brigare fu imprigionato. Quando i Crociati ebbero sconfitto il Sultano di Nicea, Pancrazio fuggitosi dal suo carcere, venne a offerire i suoi servigi ai capi del cristiano esercito, persuadendosi che mediante il terrore incutevano le armi de' Crociati, gli riuscirebbe ricondursi negli suoi stati o almeno guadagnarne alcun altro nuovo. Con tale intendimento erasi specialmente, a Baldovino di cui presto conobbe il carattere ambizioso e intraprendente, affezionato; e benchè per la sua estrema povertà non potesse d'alcun dono il protettore suo presentare, s'ajutava nondimeno con lo stimolare nell'animo di Goffredo e degli altri principi, la cupidigia di conquistare stati e regni. Simile a quell'angelo delle tenebre, di cui è fatta menzione nel Vangelo, che trasportato il figliuolo di Dio sopra di alto monte, e additandoli vaste e belle regioni, dicevali: Vedi? tutto è tuo, se vuoi adorarmi, il buon Pancrazio standosi tenacemente al fianco di Baldovino, intento a sedurlo, mostravali dalle vette del Tauro le più ricche pro vincie dell'Asia, persuadendogliene agèvole l'acquisto. Ecco al meriggio (dicevali) le fertili campagne della Cilicia; più oltre i bei paesi della Siria e della Palestina; a oriente sono le pingui contrade che irrigano l'Eufrate e il Tigri, e fra essi due fumi avvi la Mesopotamia ove la tradizione pone il Paradiso Terrestre; l'Armenia tutta abitata da Cristiani, non aspetta che voi per esser vostra; tutti quei ricchi paesi dell'Asia impazienti del turchesco giogo, siano vostri se pur vorrete infrangere le loro catene. Queste parole del venturiere iberico ingombrarono la mente di Baldovino di aurei sogni, i quali per recare a realità , bisognandoli gran nerbo di soldatesca, cominciò sottomano a tentare alcuni baroni e cavalieri dell'esercito, a fine di tirarli ne' suoi disegni; ma niuno di quelli piegando alle di lui tentazioni, nè volendo detrattare i vessilli della Crociata o diverger dal cammino di Gerusalemme, si volse egli a corrompere i soldati, promettendo grandi prede. Ma essendo poco ben voluto e vigeudo tuttavia freschi nella mente di tutti, i mali trattamenti da esso fatti a Tancredi, anco la maggior parte de'soldati ch'ei voleva corrompere, non gli dette ascolto, e molti de'suoi medesimi non vollero seguitarlo, sicchè partissi dal campo con poco più che mille fanti e dugento cavalli solo mossi a tal partita per la speranza della preda. Quando il di lui progetto di abbandonare l'esercito fu conosciuto dai capi, niuno di quelli tralasciò di sconsigliarnelo, nè però conseguì che se ne dimettesse. Fu pertanto stabilito in un consiglio che per impedirlo dalla sua folle andata, si frapponesse l'autorità de' vescovi e de' maggiori principi, ma tutto fu vano. Profittando delle tenebre notturne, Baldovino sortì dal campo con i pochi soldati che avevasi guadagnati, e s'incamminò verso l'Armenia, senza trovar nimici che potessero interrompere il suo viaggio; perchè i Turchi per le sconfitte ricevute erano inviliti, e i Cristiani giovandosi dell'occasione per liberarsi dalla mussulmana oppressione, s'accostavano e favorivano con tutti gli spiriti ai Crociati.
La strada tenuta da Baldovino, partito che fu da Malmistra, fu verso oriente, e passata una valle la cui lunghezza è una lega, e superata una discoscesa montagna, era nella vasta pianura disceso, presentemente e, forse anco allora, dai Turcomanni, popolo pastore, abitata. Escito da essa pianura entrò per le gole amaniche, Cara capussi ovvero Porte Nere, dai Turchi appellate; da dove continuò il suo cammino per ignuda regione e da piccoli fiumicelli, che mettono capo nel gran lago di Antiochia, soltanto irrigata; ma prima di giugnere nella pianura di Turbessella, oggi detta Tel Bescer, il franco principe ebbe a superare una ripidissima diramazione dell'Amano, presentemente dai Curdi abitata. Le città di Turbessella e di Ravenella, situate sulla destra riva dell'Eufrate, apersero prima le porte all'avventuroso conquistatore; e qui cominciò scisma fra Baldovino e Pancrazio, ambedue da eguale ambizione tormentati, nonostante il progresso dell'intrapresa non fu interrotto, perchè il Franco avendo contrapposto alla astuzia dell'Armeno la violenza e minacciato di trattarlo da nimico, lo discacciò dal suo campo. Pancrazio trovandosi abbandonato da Baldovino, sopra il cui animo aveva fino allora avuto quasi pieno potere, accozzò alquanti venturieri e andò esplorando come trar profitto dalla disposizione delle genti del paese per procurarsi uno stato in quelle regioni, dove ogni provincia ed ogni città paravansi disposte a ricevere chi primo le occupasse. L'Istoria contemporanea però non si è degnata di tener dietro alle di lui gesta, le quali, come quelle di moltissimi altri venturieri che profittavano dell'universale disordine, sono cancellate dalla memoria degli uomini, come accade di que' subitani torrenti, che mossi per diluvio di piogge dai sommi gioghi del Tauro, precipitansi ruinosi sulle sottoposte campagne e le devastano, ma pocostante non sono più, nè lasciano di sè nome nella geografia. Tutti gli abitanti di que'paesi correvano a Baldovino, e provviderlo di guide e di soccorsi, quanti ne seppe desiderare, per il che in dieci ore da Turbessella giunse all'antica Birta, che gli Arabi dicono El bir, e ivi passò l'Eufrate, per la via più spedita che tengono le carovane. Rimanevano sedici ore di cammino per arrivare a Edessa e avevasi a viaggiare per regione squallida e ignuda. Baldovino tenne una vecchia strada romana aperta fra sterili montagne e, percorso dalla fama di sue vittorie, pervenne alla Metropoli della Mesopotamia.
Edessa, alla quale i Talmudisti danno antichità pari a quella di Ninive, attribuendone la fondazione a Nemrotte, era stata, in onore di Antioco, Antiochia appellata e per distinguerla dalla capitale della Siria, avevanta soprannominata dalla fontana di Calliroe. I Cronisti latini diconla Jìoa, vocabolo derivato dal greco Roe, che significa fontana, presentemente però porta il nome di Orfa. La concorde opinione degli eruditi ne fa fondatore Seleuco il Grande, intorno a quattrocento anni avanti l'Era Volgare. Il suo sito è in un'ampia valle fra due colline, ignude e sassose, in tutto disgiunte dalla diramazione del Tauro. Il cerchio della città è quattro miglia; le mura da torri rotonde e quadre sono fortificate, e profondi fossi la circondano. Aveavi una cittadella sulla cima meridionale della collina che sovrasta alla città da ponente. Le mura, le torri e il lusso sussistono tuttavia, ma il castello è diroccato, e nel suo recinto veggonsi alcuni casolari e una moschea abbandonata. Questa cittadella un tempo pareggiava quasi la città, ed era di mercati, di chiese e di palazzi fornita. Orfa per la quale passano le carovane che di Siria vanno in Persia, ha attualmente da circa quindicimila abitatori tutti Mussulmani, se se ne eccettua un migliaio d'Armeni e pressocchè cento Giacobiti. Nel mezzo della città avvi una vecchia chiesa col suo campanile, che vi fu già al tempo delle Crociate e che ora è in moschea tramutata; trovandovisi presentemente quindici santuari mussulmani, e due cristiani soltanto. A ponente di Orfa la natura fa bella pompa di tutte le sue dovizie; ameni e pingui oliveti, boschetti di mandorli, di aranci, di mori, di melagrani, riducono a memoria del viandante le delizie dell'Eden di Moisè situato precisamente in quella regione. Erasi preservata Orfa dalla turchesca alluvione, dondechè tutti i Cristiani de' luoghi circonvicini, s'erano colà con tutte le loro ricchezze rifugiati. Un principe greco, Toròs o Teodoro appellato e delegatovi dall'imperatore bizantino, la governava mantenendovìsi col pagar tributo ai Saraceni. Le vittorie e la venuta de' Crociati aveano fortemente sollevati gli animi, onde il popolo e il governatore eransi accordati a chiamare Baldovino in loro soccorso, perchè dalla turchesca soggezione gli liberasse, spedendoli a tale effetto una ambasceria dal vescovo e da dodici de' principali cittadini composta; i quali annoverarongli le ricchezze della Mesopotamia, certificaronlo della devozione de' loro concittadini per la causa di Gesù Cristo e raccomandaronseli per ultimo che volesse salva quella cristiana città dal dominio degli infedeli. Baldovino, come non è da dubitare, accedette facilmente alle coloro preghiere. Per sua buona ventura era entrato nel territorio di Edessa, senza trovare i Turchi che l'aspettavano sulle rive dell'Eufrate e senza aver avuto alcun altro sinistro incontro, il che arebbe forse causata la sua mina, perchè avendo posti presidii nelle città che se gli erano date, di tutta la sua gente non rimanevanli altro che cento cavalli; sicchè quando giunse alla città, sendo escito a riceverlo tutto il popolo, con rami d'olivo in mano e cantando sacri cantici, parve spettacolo molto curioso e quasi comico, vedere un tanto piccolo numero di guerrieri supplicati di difesa da molte migliaia di uomini che gridavanli loro liberatori. Ma le umane deliberazioni sogliono quasi sempre dipendere più dalle false opinioni preconcette, che da severi e positivi giudizi, per modo che sempre avrà favore e buoni successi nel mondo chi saprà con astuzia procacciarseli , non chi, con onorate fatiche, se li vorrà meritare. Tanto fu il favore con cui fu accolto Baldovino, che il principe o governatore di Edessa, poco ben voluto dal popolo, se ne insospettì, parendoli aver a temer ne' Franchi, nimici più pericolosi de' Turchi: nella qual sua sospicione, desiderando assicurarsi de' nuovi ospiti, con offerte e promissioni di grandi ricchezze, si volse a guadagnarsi l'animo di Baldovino e disporlo a farsi protettore della di lui autorità. Ma l'ambizioso franco, o che molto più s'impromettesse dalla affezione del popolo e dalla fortuna di sue armi, o che reputasse a sè disonorevole farsi mercenario di straniero principe, rigettò con disprezzo le offerte del governatore, e simulò anco di volersene andare e abbandonare la città. Il popolo a cui ciò gravava molto, cominciò a tumultuare, scongiurando con alte grida Baldovino a non partirsi, per il che il governatore, quantuaque avesse nel suo segreto cara la partita, non volendo troppo dispiacere al popolo, anch'egli posesi a pregare perchè i Crociati non privassero la città di loro protezione. Baldovino frattanto aveva accortamente fatta divulgare voce, ch'egli non assumerebbe mai la difesa distati che non fossero suoi; al che avendo considerazione il governatore, e conoscendo che senza trovar temperamento da contentare l'ambizioso appetito del franco, correvano le cose sue a manifesta ruina, essendo vecchio e non avendo prole, si deliberò di adottarlo per figliuolo e dichiararlo suo successore.
La cerimonia della adozione fu celebrata in cospetto del popolo e de' Crociati, per la quale, secondo la consuetudine orientale, il principe greco fecesi entrare Baldovino fra la camicia e la nuda carne e diedegli il bacio dell'alleanza e della parentela. La vecchia moglie del governatore rifece anco essa la medesima cerimonia; e Baldovino avuto come loro figliuolo e legittimo erede, non trascurò più cosa veruna per difendere la città che doveva esser sua. Era venuto eziandio in soccorso di Edessa Costantino principe di Armenia che governava una delle provincie situate a pie del monte Tauro. La presenza dei soldati della Croce, aveva spirato spiriti marziali a tutte quelle popolazioni, per modo, che dove prima non attendevano ad altro che a blandire e farsi i Turchi trattabili, allora non dubitavano di contrastarli con le armi in mano. A maestrale di Edessa, dodici leghe distante, sulla riva destra dell'Eufrate, aveavi le città di Samosata, che ora dicono Semisat, abitata da Mussulmani. L'emiro che la governava, dando di continuo il guasto alle terre degli Edesseni e gravandoli di tributi, per assicurarsi del pagamento, aveva voluto in ostaggi i figliuoli de' principali cittadini; il che obbligava da lungo tempo gli Edesseni a forzata obbedienza e rassegnazione; ma ora essendo sollevati i loro animi per la speranza della vittoria e per la brama della vendetta, prendono le armi e pregano Baldovino che gli conduca contro i nimici. Corrono speditamente sotto Samosata, dànno il sacco ai sobborghi e alle vicine campagne; ma la città opponendo vigorosa difesa, Baldovino, per non perder tempo in inutili tentativi, e temendo che lo star lontano potesse nuocere a' suoi disegni, se ne ritornò a Edessa; e per colorare in qualche modo quella sua precipitosa partenza dall'esercito e quella non onorevole interruzione della impresa cominciata, fece segretamente spargere nel popolo varie voci ingiuriose al suo padre adottivo, accusandolo del rimanersi ozioso nel suo palagio, mentre i Cristiani andavano pugnando co' Turchi, con i quali affermavano ch'egli tenesse pratiche e intelligenze clandestine. Sopra tali accusazioni e, secondo Matteo Edesseno, partecipandone Baldovino, fu ordita una congiura contro la vita del malarrivato principe Teodoro, il quale però avendone avuto avviso, rinchiusesi subitamente nella cittadella, da dove cominciò ora la pietà del popolo ora quella de' Crociati, ad implorare. Frattanto cresce il tumulto, e la furiosa multitudine, irrompendo per le strade, dà il sacco alle case de'partigiani di Teodoro. Corrono dipoi alla cittadella; alcuni atterrano le porte, altri danno la scalata; Teodoro rimaso abbandonato da tutti, dismessele difese, propone di capitolare, offerendo di escire dalla città, di renunciare al governo, e chiedendo che gli si accordi di ritirarsi con la sua famiglia nella città di Melitene, presentemente Malazia. Sono accettate le proposizioni, fermata la pace, e i cittadini è i Crociati fanno sacramento sulla Croce e sul Vangelo di osservar le condizioni stabilite. Il seguente giorno, allorchè il governatore dispdnevasi alla partenza, ecco sorgere nuovi tumulti. I capi della congiara considerando alla imprudenza di lasciare la vita a un principe tanto per essi oltraggiato, fingono nuove accuse contro di lui: ch'egli abbia sottoscritta e ratificata la detta pace, con intendimento, quando fosse escito salvo della città, di prepararsi alla guerra e alla vendetta. Baldovino religioso alla principesca prudenza, e persuaso che niun successore di trono vi s'asside sicuro, finche vive il suo predecessore, non pretermetteva il concitare il popolo e i congiurati, e tanto potere ebbero le sue suggestioni che ultimamente il tumulto, in vero popolare furore cangiato, tutti chiedono la morte del misero Teodoro. Alcuni a ciò deputati entrano a forza nella cittadella, prendono il governatore in mezzo alla sua esterrefatta famiglia e trascinatolo crudelmente sulle mura, da quelle il precipitano. Il deforme e sanguinolento cadavere dell'infortunato vecchio fu dalla pazza plebe, con ischerni ed oltraggi vilissimi per tutte le vie trascinato, congratulandosi ciascuno di tale assassinio più che di vittoria che avesse degli infedeli riportata. Frattanto il prudente Baldovino, il di lui figliuolo adottivo, il famoso campione di Cristo, s'assise tranquillamente sul vacante trono di Edessa. Prima però, per quella invincibile verecondia che non diserta mai in tutto, anco i perfidissimi uomini, dopo esser egli stato ozioso spettatore di quella tragedia, senza neppur aver soccorso di parole al suo padre adottivo, quando vide tutto il popolo correre a lui offerendoli il principato della città, simulava non volerlo accettare, e operato mediante gli artifici nieghi che la cieca moltitudine, per la contrarietà, come suole, nei prieghi s'ostinasse, alfine quasi a forza si dimostrò conteuto di quello che più desiderava e che con scelleratissima ingratitudine aveva procurato. Il pazzo popolo allora liberatore e signore di Edessa lo proclamava. Assiso dunque sul trono lordo del paterno sangue, e come i tiranni sogliono, paventando l'incostanza popolare, si comportò subito in modo che l'avessero a temere non meno i sudditi che i nimici. Empita la città di taciturno terrore; si volse con le armi e con l'oro ad ampliare il suo stato; avendo col tesoro del predecessore comperata la città di Samosata e più altre che non potè occupare con le armi. Come in tutte le altre cose, lo favorì eziandio la fortuna con farli morire la sua moglie Gundescilda, onde venne ad agevolare i suoi progetti ambiziosi; perchè toltasi in moglie la nipote d'un principe armeno, mediante la dote di quella, potè estendere i suoi dominii fino al monte Tauro. Una parte della Mesopotamia, e le rive dell' Eufrate sottoposersi alla di lui autorità, e l'Asia vide allora un cavalier francese regnare sicuramente sulle più ricche provincie dell'antico regno d'Assiria. Solo occupato nel difendere e ingrandire i suoi stati, Baldovino non si curò più in verun modo della liberazione di Gerusalemme. Molti altri cavalieri adescati da sì rapida e maravigliosa prosperità, concorsero a Edessa ad aumentare l' esercito e la corte del nuovo principe.
Ma poichè niun maleficio degli uomini può esser tanto perfetto nella iniquità che non produca alcun bene; i vantaggi che procurò ai Crociati la fondazione di questo nuovo stato, hanno mitigate le reprobazioni della istoria per la ingiustizia, la perfidia e la violenza che alla fondazione medesima concorsero. Il principato di Edessa fu potente a contenere i Turchi e i Saraceni, fino alla seconda Crociata, e fu come fermo muro del Latino Imperio dalla parte dell'Eufrate.
Tratto da:
"Storia delle crociate" scritta da Giuseppe Francesco Michaud, Volume 1, Firenze 1842